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Jackson Browne: “I nostri rifiuti dureranno più della nostra cultura”. L’intervista

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Di Gianni Sibilla

Per scrivere una canzone ci possono volere anche anni: e così “Downhill from Everywhere”, il nuovo album di Jackson Browne, arriva a ben 7 anni, da “Standing in the breach” del 2014. In mezzo c’è stato di tutto: la presidenza Trump, il Covid-19 – che il cantautore californiano ha contratto ad inizio pandemia. Ci sono i ricordi del Laurel Canyon e la collaborazione con le nuove generazion, in particolare quella con Phoebe Bridgers (“Una delle migliori voci della sua generazione: l’ho vista dal vivo diverse volte e io e sua madre eravamo sempre le persone più adulte nel pubblico…”).
Il risultato non cambia, per fortuna “Downhill frome everywhere” è un album classico, sia nei suoni che nei temi politici, che sono diventati il centro della musica di Browne fin dagli anni ’80, mettendo in secondo piano la sua dimensione intima, ispirata dalla sua amica Joni Mitchell. La conversazione con un’icona del rock americano, tra nuova musica e uno sguardo al passato.


“I’m still looking for something”: è la prima frase che canti nel disco. Dopo quasi 50 anni di carriera cosa cerchi oggi nella musica?
La musica è una ricerca continua, sia sul suono che nelle parole. In questo disco mi sono concentrato sul trovare il suono giusto della batteria, per esempio. Capire cosa fa un batterista è stato illuminante, ti fa cambiare il modo in cui pensi alle canzoni. Ma oltre alla batteria, cerco sempre anche il modo giusto per vivere: il tempo che abbiamo per capirlo è limitato.

Cosa ti spinge oggi a scrivere una canzone?
Sono alla ricerca di modi nuovi di raccontare le mie sensazioni o quello che vedo nel mondo. Raccontare una storia, prima di tutto a me stesso. Farmi domande è il motore della mia musica: quando ho un’idea ci posso mettere anche degli anni. Certe idee magari tornano dopo molto tempo: è impossibile finire una canzone se non rispondi alle domande che ti fai. La prima canzone del disco parla esattamente di questo, della libertà di seguire le risposte che trovi facendoti certe domande.

“Downhill from here” ha avuto una gestazione lunga: doveva uscire sei mesi fa, ma la situazione ora è cambiata: in America avete un nuovo presidente, per esempio.
Ho passato un parte della mia vita con un presidente che non mi piaceva, è parte della democrazia. Anche se Trump non è più presidente, ha lasciato dietro di sé un paese spaccato, dove una parte della politica sta mettendo in discussione le stesse basi della nostra nazione.

Allora qual è il significato del titolo del disco? Le cose possono solo migliorare, o possono ancora peggiorare?
Come in una canzone country, le cose possono sempre peggiorare… “Downhill from everywhere” è la definizione che il Capitano Charles Moore diede degli oceani, dopo avere notato come si riempie di plastica quel punto in cui le correnti si incontrano, diventando una sorta di gigantesca pattumiera. La canzone parla di questo, di come gli oceani sono diventati il luogo per tutto quello che l’umanità ha prodotto e non vuole più. I nostri rifiuti dureranno più della nostra cultura.

C’è stato un punto di svolta nella tua carriera: negli anni ’80 la tua musica è diventata molto più politica e appassionata, su temi come questo. Come è nato questo cambiamento?
Fu una risposta a cosa succedeva nel mondo: in quel periodo, le soluzioni che il presidente Reagan proponeva a problemi complessi erano troppo semplicistiche. Ma molti ascoltatori non si aspettavano da me un approccio satirico come quello di “Lawyers in love” o direttamente politico. Fu una necessità. Ma scrivere canzoni, con il tempo tra quando le scrivi e le pubblichi, è un modo tutt’altro che immediato di reagire. 

Fu una svolta ancora più spiazzante, se si pensa che prima eri uno dei pochi cantautori cresciuti in California ad avere seguito la strada indicata da Joni Mitchell. Recentemente ha raccontato che molti tuoi colleghi maschi furono spaventati da “Blue” e da quell’approccio così aperto e intimo e che per questo venne sottovalutata o sminuita. 
Si, è vero: sono uno di quelli che più ha seguito la sua lezione: per me Joni Mitchell era tutto. Non capisco come qualcuno possa dire che era sottovalutata: ha scritto alcune delle canzoni più influenti della storia, viene citata da artisti diversi come Elvis Costello a Chrisse Hynde a Peter Gabriel. Ha aperto molte strade, non solo con “Blue”: poco dopo i si diede al jazz. una forma musicale che notoriamente non paga ed è sottovalutata. È una delle cantautrici più stimate di sempre, anche se non andò tanto in tour e negli ultimi anni si è ritirata.

Sei cresciuto musicalmente nel Laurel Canyon di Joni Mitchell, CSN&Y, Eagles. Sei ancora in contatto con qualcuno di quella scena?
In realtà divenne subito un posto molto costoso dove vivere: se ne andarono tutti in fretta… Sono amico con molte delle persone che frequentavo, anche se ci vedevamo poco al tempo perché appena le nostre carriere presero il volo eravamo sempre in tour. Gente come Don Henley o JD Souther, che ora vivono in Texas o a Nashville. Mi hanno raccontato che ad una serata in onore di Linda Rondstadt alcuni di loro si sono trovati, ma sono finiti a parlare delle pillole che prendono per dormire…

La maggior parte della gente che creò quella scena in realtà arrivava da altri posti: dal Canada, dal Texas, dal Michigan.
Il canyon era un posto accogliente, con un’atmosfera verde e pastorale rispetto alla pianura di downtown: la gente venne a Los Angeles per fare i dischi, perché lì c’erano i discografici, gli studi. Si imparava molto a frequentare quelle persone e quei luoghi, e ovviamente si facevano molte altre attività…

Il tuo amico David Crosby ha venduto i diritti delle sue canzoni, una tendenza diffusa in tutta l’industria. È qualcosa che hai preso in considerazione?
Dipende molto dalla situazione in cui sei: è qualcosa che non ho bisogno di fare, ora. E non credo che otterrei le cifre che sono state offerte ad alcuni colleghi.

L’anno scorso sei stato uno dei primi musicisti a dire in pubblico di avere contratto il Covid-19. Come stai, ora?
Sto bene, senza effetti a lungo termine. Quando eravamo giovani abbiamo abusato di noi stessi senza davvero preoccuparci di quello che sarebbe potuto succederci dopo. Spero che il vero effetto a lungo termine di questo periodo sia insegnare ad avere più attenzione alla nostra salute.